A d'Azeglio parve aver convertito molti, esautorata la setta, e pieno della speranza che Carlo Alberto sarebbe divenuto il direttore del partito liberale italiano, va a Torino per parlargli. Prima, non lo aveva veduto mai e ne diffidava in cuor suo. Espose lo stato de' liberali, quello che si macchinava, i fini cui si tendeva: risultato del colloquio furono queste parole di Carlo Alberto, che aveva ascoltato d'Azeglio in silenzio e con attenzione: - «Fate sapere a quei signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che siano certi che, presentandosi l'occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sará speso per la causa italiana» - .
A quel fate sapere, d'Azeglio si credette investito di una missione. Ma quando si preparava a lavorare con maggiore energia, tutti i suoi sogni svanirono. Le Romagne, da lui credute convertite, gliene fecero una. Scoppiò il moto di Rimini e di Bagnocavallo, ed egli allora lasciò ogni riguardo verso i liberali, credé dover parlare alto, e incoraggiato da Cesare Balbo, pubblicò quel libro degli Ultimi casi di Romagna, che fu un avvenimento.
Non è un libro di occasione, di quelli che si fanno secondo spira il vento, destinati a perire. Nella storia d'Italia è il primo scritto veramente politico. Mancavano giornali politici, gli scritti di quella natura venivano dagli esuli, avevano la forma dottrinale e filosofica del Primato e delle Speranze. È il primo scritto in cui la polemica entra come parte importante, si ragiona ai partiti ed ai principi, si discute la cosa pubblica, non una teoria od un principio astratto, con grande maraviglia degl'Italiani di allora, i quali applaudivano al coraggio dell'autore, quantunque non mancassero alcuni che vedevano nel libro insinuazioni albertiste.
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