Tal'è Berchet. La materia sinora non lo interessa abbastanza, è morta. E se fosse rimasto a Milano, come Manzoni e Grossi, probabilmente avrebbe fatto prima la traduzione delle romanze spagnuole e di scrittori inglesi, francesi e tedeschi, ma in lui non si sarebbe rivelato l'artista.
Invece, quando dové abbandonare Milano e gittare cosí ogni ritegno, e sentí i dolori della solitudine, della miseria, e il caldo amore di patria, quando tutti questi affetti operarono nel suo animo; allora potè mandar fuori canti immortali. Poi si riposò quasi stanco e ridiventò il Berchet romantico, con le romanze spagnuole. Dobbiamo dunque esaminare l'esule in cui accanto al cittadino sdegnoso vedremo sorgere il grande poeta.
[Roma, 22, 23 e 24 marzo 1874.]
IX
GIOVANNI BERCHET
Nona lezione del prof. Francesco De Sanctis.
Abbiamo lasciato Berchet ancora a Milano, prima imitatore di Parini e di Foscolo, poi battagliero romantico che scrive nel Conciliatore, detta la lettera di Grisostomo, canta leggende come Il Sire di Monforte, il Cavaliere bruno, Abore e Signilda, ed altre cavate dal Medio evo.
Ora, siamo al passaggio ad una terza forma poetica - quando Silvio Pellico e Maroncelli pigliavano la via dello Spielberg, ed egli quella dell'esilio - ; fermiamoci un poco ed esaminiamo questo passaggio.
Sotto governi non liberi, quando la nazione è ancora in istato di decadenza o di mezza coscienza, anche i piú forti ingegni sentono la fatalitá della situazione, e ve ne accorgete dagli argomenti che scelgono e dalla forma piú ironica che indegnata la quale accompagna lo sviluppo dei loro argomenti.
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