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      Che t'importa, o vilissimo inglese,
      Se un ramingo di Parga morí!
     
      Ora una voce fiera gli grida:
     
      Rammentando qual sono e qual fui,
      I miei figli, per Dio! fremeranno;
      Ma non mai vergognati diranno:
      Ei dall'anglo il suo frusto accattò.
     
      D'ora innanzi, dovunque ei vada, per monti e per piani, ne' campi e ne' villaggi, quella voce lo perseguiterá, e per straziarlo gli dirá: tu sei inglese!
     
      Sente l'Anglia colpata d'oltraggiMaledetta da un nuovo livor.
     
      Eppure egli desta interesse. Prima, avreste sentito invidia per le sue ricchezze, oggi lo compiangete, perché ciò che nobilita è appunto che egli si sente infelice di avere quella patria: ciò fa sí che noi lo separiamo dalla folla e vediamo in lui un'anima non comune.
      Ma se costui lo separiamo appena dalla folla, chi riempie la scena? Qual'è la statua che vi domina? È appunto colui che ara la terra, e mena alla pastura armenti non suoi. Non giá ch'egli non senta l'abbiettezza della sua condizione; se cosí fosse, sarebbe un idiota. Sente, ricorda di essere stato un guerriero onorato e potente. Quella mano incallita nel trattar la spada, la mano su cui il callo splende come gemma perché ricorda tante imprese gloriose, ora stringe l'aratro. Queste memorie si contrappongono all'abbiezione presente, abbiezione volontaria, la quale gli dice sempre: tu non sei vile, perché non hai voluto stringere la mano di chi ha oppresso la tua patria. È tutto un complesso di sentimenti elevati che ingrandisce l'esule, benché tenga in mano la vanga; gli dá proporzioni gigantesche come quelle, per esempio, di Farinata, - e questi sentimenti l'autore ha saputo condensarli in una strofa che appresi quando ero fanciullo e non potei piú dimenticare:


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La letteratura italiana nel secolo XIX
(Volume Secondo) La scuola liberale e la scuola democratica
di Francesco De Sanctis
pagine 590

   





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