Tutto ciò produsse impressione per le molte allusioni, ma non vi fu mai concetto piú infelice. È impossibile ad un poeta rappresentare vivacemente e poeticamente un personaggio che è figura d'un altro; sí che, per cercare Napoleone, Niccolini ha perduto Nabucco, e, per rappresentare madama Letizia, non ha lasciato neppure la povera Vasti. Sono lavori simbolici che, per presentare due personaggi in uno, non presentano né l'uno né l'altro. E mettiamo da canto anche il Nabuccodonosor, che non lasciò traccia alcuna di sé.
Nel 1830 le speranze di libertá si risvegliano, e si risveglia la musa di Niccolini, e produce il Giovanni da Procida.
Ebbe molta voga, perché l'autore suppose un Giovanni da Procida non siciliano, ma italiano: parve strano che un fiorentino parlasse come Berchet, dal punto di vista nazionale. Ma lá entro il concetto è una patria italiana attorniata dagli stimoli degli affetti di padre e di marito; e quando si passa alla rappresentazione, ci si presenta un Giovanni da Procida gittato in mezzo ad una matassa di complicazioni. Sicché la cosa principale non è il patriota, il quale resta avviluppato da intrighi, come è nel Torrismondo del Tasso: per esempio vi si trova un francese marito d'una siciliana, della quale si scopre fratello. Anche questo lavoro ebbe un po' di celebritá e poi fu dimenticato.
Giungiamo al 1844. Pigliava vigore la scuola neo-guelfa, la scuola romantica milanese; e celebrava una chiesa ideale per far passare una chiesa reale molto diversa, la Chiesa romana.
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