Oltrepassato un viottolo, stretto da due siepi di rovi verdi picchiettati di more ancora rosse, i due amici presero la via dell'altipiano. Il sole era tramontato, un vastissimo cerchio di purissimi orizzonti circondava il paesaggio; montagne violacee tagliavano coi loro nitidi profili l'occidente roseo: ad oriente la linea d'argento livido del mare lontano. Nella bassura, il villaggio moresco, coperto di noci e di pioppi, s'assopiva già nell'ombra, al mormorio del ruscello che lo attraversava; davanti stendevasi e dileguava la pianura alta, ondulata. Campi di stoppie gialle luccicavano come stagni d'oro nella luminosità del tramonto; e là in fondo, là in fondo, dietro quelle linee d'oro, si inoltrava il regno delle macchie, l'altipiano sconfinato, la brughiera solitaria, quel sogno di solitudine primitiva per il quale Antonio Azar era venuto, con la speranza di tuffarvisi come in un bagno, per dimenticare o per lenire il suo dolore.
- Finora non ti sei che annoiato - gli disse il Mulas quasi seguendo il segreto pensiero dell'amico.
Antonio roteò in aria il bastone, lo lanciò in alto e lo riprese a volo.
- Bravissimo - disse l'altro, seguendo con gli occhi il giuochetto. - Mi vien quasi voglia di farlo anch'io.
- E prova - rispose Antonio, porgendogli il bastone. Ma l'altro lo respinse.
- E via, io sono cacciatore.
- Che importa? Non vuoi provare perché non lo sai.
- Dammi! Uno, due, tre.
Il bastone cadde lontano: i due amici si slanciarono assieme per raccoglierlo, ridendo come bimbi.
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Antonio Azar Mulas Antonio
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