Partì la nave messinese scortata in apparenza dall’arcivescovo di Genova, il quale prese la via di Sardegna, e quando giunse al capo Pula, calpestando tutti i sacri doveri, ai quali era tenuto, con esecrando tradimento s’impadronì della nave, e di tutto il carico che era in essa per conto del re di Aragona suo padrone. A buona sorte di questo sovrano pervennero in quei mari tre grosse navi genovesi, che andavano in cerca dell’iniquo arcivescovo. Questi accortosene, e temendo di non rimanervi prigione, prese la risoluzione di fuggire, e non volendo abbandonare la sua sacrilega preda, s’imbarcò sulla nave messinese, che per altro era più veliera, e scappò. Vedendosi inseguito dai suoi nemici, andò a rifuggirsi nella terra di Pepoli, di cui era signore Giacomo Appiano suo consanguineo, lusingandosi per la parentela che avrebbe potuto conservare la roba rapita. Era Giacomo di un diverso carattere da quello del Fregoso, giacchè vantava quella onestà, di cui questi era privo. Inorridì egli all’udire il tradimento fatto da questo indegno arcivescovo al re di Aragona, cui si era con giuramento obbligato di servire fedelmente, e non solo ricusò di ricoverarlo nel suo castello, ma inoltre sequestrò i beni rubati, per conservarli a nome del re Giovanni. Informato di tutto questo fatto il vicerè Bernardo Requesens, spedì a Pepoli Niccolò Lucchese, che accompagnò con sua lettera in data degli 11 di ottobre 1464 a Giacomo Appiano, che loda di quanto avea operato, e prega a consegnare al medesimo Lucchese ciò che era stato derubato al re di Aragona.
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