Il vicerè, tosto che ne fu avvisato, fe’ impiccare per la gola sei dei principali capi; ma questo rigore nulla giovò, giacchè crescea di giorno in giorno la rabbia popolare, e particolarmente in Modica, e nella città di Noto, giunse a tal segno la barbarie, che furono passati a fil di spada non solo gli uomini, e le donne ebree, ma persino i teneri, ed innocenti fanciulli; e contasi, che in uno di questi ghetti ne furono trucidati seicento, e cinquecento in un altro. Questa epidemica crudeltà diramandosi continuamente nella valle di Noto, il vicerè prese l’espediente di avvicinarvisi, acciò fosse più a portata di ripararvi, e andò a fissare la sua dimora nella città di Catania.
Stava già per spirare la tregua col re di Tunisi: il re di Aragona distratto dalla guerra con quel di Francia per la contea di Rosciglione, non avea potuto spedirvi il suo ambasciadore per stabilire gli articoli della pace. Considerando il vicerè, che spirando la tregua tornerebbe la Sicilia ad esserne molestata, spedì al Bey suddetto il tesoriero del regno Guglielmo Peralta con una lettera offiziosa a quel principe, in cui lo pregava a nome del suo monarca di prolungare la tregua per altri due anni. Noi abbiamo copia della suddetta lettera, e ancora le istruzioni date al Peralta nella regia cancellaria (430). La lettera è segnata in Catania agli 8 di giugno 1475. Ci è ignoto qual esito abbia avuta la commissione affidata a questo prelato.
Questa fu l’ultima provvidenza data da questo vicerè. Ammalatosi egli gravemente in Catania, pieno di anni, e di meriti se ne morì ai 12 di settembre dello stesso anno, compianto dai siciliani tutti da lui così lodevolmente per tanti anni governati.
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