Facendo la sua dimora nella casa di Antonio Sollima, chiamò a se i nobili della città, ai quali espose il pericolo in cui era la Sicilia, e principalmente la loro patria, d’essere invasa dai Turchi, e perciò la necessità, in cui eglino erano di concorrere coi loro voti al proposto sussidio, che si dimandava per il bene, e per la sicurezza di tutti. La nobiltà non opponendosi direttamente alle mire del vicerè con pulitezza chiese tempo a rispondere; ma diede abbastanza a divedere al medesimo, ch’era di contrario avviso. Accorgendosi egli di ciò, e sperando di ottenere quanto chiedea dal popolo, ch’è sempre nemico de’ nobili, chiamò i principali, e proposto loro il bisogno del regno, per indurli a consentire, promise a’ medesimi la sua protezione contro la nobiltà. Nondimeno ancora questi dimandarono del tempo a deliberare, e in quanto si appartenga a’ nobili dissero, ch’eglino non aveano alcun motivo di dolersene, avendo sempre conosciuto per esperienza ch’erano i loro padri, e che non cercavano che il vantaggio del popolo, e della città. Negli stessi termini si contenne il senato chiamato ancora a quest’oggetto, dichiarando che prima di risolvere era di mestieri di consultare questo affare. Laonde il Cardona osservando, che nulla era da sperarsi da’ Messinesi, propose a’ medesimi, purchè non si fossero opposti nel parlamento, che li avrebbe fatti dichiarare esenti con tutto il loro territorio dalla proposta tassa, ed avrebbe inoltre obbligati i parlamentarî a somministrare alla loro città quindici mila scudi per ristorare le mura della città. Ma cantò a’ sordi; restarono i Messinesi costanti nella loro risoluzione, protestandosi che avrebbono sempre preferito il vantaggio di tutta l’isola ai particolari loro comodi (461). Quindi il vicerè vedendo inutili tutti i suoi sforzi, se ne andò a Catania.
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