Eravi fra gli ambasciadori di Palermo Niccolò Leofanti regio tesoriero, il quale udendo queste parole dal Bonfiglio disse al vicerè, che questa resistenza era un manifesto indizio di ribellione. Non tenne fermo il messinese a questo rimprovero, e dando al Leofanti una mentita, snudò la spada, e lo minacciò, se non tacea, che gliel’avrebbe conficcata nella gola. Questo insulto fatto nel parlamento ad un ministro regio, e alla presenza del principe, irritò l’animo del conte di Prades, il quale ordinò, che il Bonfiglio, e il Gotto fossero subito carcerati; e spedì alla casa dello Staiti Antonio Sollima secretario di corte, acciò gl’intimasse, sotto la pena d’incorrere la disgrazia del sovrano, di non sortirne sino a nuovo ordine. Questo disturbo nato nel parlamento ne fe’ sospendere per allora le sessioni (463).
Arrivata in Messina la notizia della prigionia dei due ambasciadori, e dell’arresto in casa dello Staiti, ognuno può immaginarsi, come si sieno aizzati quei cittadini. Incolpavano eglino lo Staiti di pusillanimità, gridando che egli per isfuggire ogni incontro cogli ambasciadori di Palermo, si fosse infinto ammalato, quando non era; e sopra ogni credere erano irritati contro il Sollima, che chiamavano traditore della patria, perchè avesse intimato allo Staiti la carcerazione in casa. La smaniosa plebe volendo vendicarsi di costui corse alla di lui casa con fascine, e vi appiccò il fuoco. Sarebbe questa stata incenerita, se le lagrime della moglie, e dei figliuoli, che chiedevano pietà, e il consiglio dei savî cittadini, i quali suggerivano che dovea castigarsi il traditore, non già la moglie, e i figliuoli, che erano innocenti, non ne l’avessero frastornata.
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