Nondimeno il vicerè, sospettando che quell’ammiraglio aspettasse altri rinforzi, fe mettere in armi la città, ed ordinò a Pietro di Leiva generale delle galee di Sicilia, che uscisse colle medesime dal porto, per osservare gli andamenti della squadra ottomana, e per recare a Reggio munizioni da guerra, viveri e soldatesche, sul ragionevole dubbio che Sinam non volesse assalire quella città, come avea fatto l’anno 1594. Eseguì il Leiva il comando del vicerè, e nel ritorno, per quel che ne scrisse il Bonfiglio (1212), che allora vivea, salutò col cannone l’armata turca, e ne fu corrisposto dalla capitana.
In capo a pochi giorni giunse a Messina uno schiavo spagnuolo, liberato dalla catena da Sinam, il quale recava una di lui lettera al vicerè, colla quale il pregava di accordare il permesso alla madre di esso Sinam di andare a vederlo, come ei ardentemente bramava, e un’altra alla madre scongiurandola a venire. Il duca di Macqueda volle compiacerlo, e ordinò che s’imbarcassero sopra due galee di Sicilia colla madre anche i fratelli, la sorella, e i nipoti di quel bassà. Andarono questi a bordo della reale galea capitana, e dopo i teneri abbracciamenti restarono a desinare con Sinam, e la sera si restituirono a Messina. Questa è la nuda, e semplice relazione. L’Aprile (1213), il Longo (1214), e il Caruso (1215) vi aggiungono altre circostanze, che noi non osiamo di far buone, vedendole tacciute dal Bonfiglio scrittore vivente (1216). Veduta la madre, e i suoi, Sinam fe partire il figlio con alquante galee per impossessarsi del regno di Tunisi, ed egli col resto dell’armata lo seguì; e gastigati quei Mori, se ne tornò a Costantinopoli.
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