Profittarono i Palermitani della circostanza per cui i Messinesi erano caduti dall’animo del vicerè, e tentarono di ottenere, mentre soffiava per loro un vento fresco, e favorevole, ciò, che aveano più volte cercato inutilmente. Dava loro noia il vedere, che il diritto di coniare moneta, che di ragione apparterrebbe alla capitale, si fosse reso sotto i principi austriaci così privativo a Messina, che per quante pratiche avessero eglino adoprato, per fare almeno condiscendere quei sovrani ad accordarlo del pari alla loro patria, non n’erano giammai venuti a capo (1448). Eglino dunque trovando il vicerè molto propenso a favorire la loro città, rappresentarono al medesimo quanto fosse giusto che Palermo godesse di questo privilegio, e come fosse più vantaggioso al regno, che vi fossero due zecche. Il duca di Alcalà, o che volesse vendicarsi de’ Messinesi, o che credesse assai ragionevole la dimanda dei Palermitani, o che finalmente le circostanze d’allora così ricercassero, era disposto a contentarli; ma per non parere di operare a capriccio, incaricò il reggente Pietro Corsetto, che da Spagna era ritornato in Palermo colla carica di presidente del concistoro, acciò esaminasse questo affare. Consultò questi che fosse conveniente di accordare a Palermo il privilegio di monetare per questa volta; e il vicerè dietro alla relazione del Corsetto sotto i due di settembre 1635 con dispaccio viceregio elesse Orazio Giancardi maestro portolano per maestro di zecca, ordinando ai governatori della tavola che consegnassero al medesimo la moneta vecchia, ch’era nel banco, per farsi la nuova, dispensando per questa volta a tutto ciò, che vi fosse in contrario (1449).
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