Ardeano le faci intorno a quello, e sarebbesi ridotto in cenere, se i Teatini, i Crociferi, e gli Agostiniani scalzi con dolci maniere non li avessero distornati dal forsennato disegno. Ma allontanati dalla casa del senato, non perciò desisterono dalla tumultuazione, che anzi andando alle pubbliche carceri, dando fuoco alla porta, ne [334] fecero sortire i carcerati, che accrebbero il loro numero; e bruciarono le scritture, e i libri della vicaria. Indi intesi che tre maestri razionali, cioè Orazio Strozzi, Ascanio Ansalone, e Scipione Cottone, erano stati coloro, che avevano consigliata la diminuzione del pane, s’accinsero ad incendiare le loro case; e lo avrebbono eseguito, se molti regolari, l’arcivescovo, l’inquisitore Trasmera, il marchese di Geraci, e i principi di Villafranca, di Pantellarìa, di Trabìa con preghiere, e con denari non li avessero distornati da questo, e da altri eccessi. Il marchese de los Veles in vece di accorrere a riparare il disordine, si era ritirato al convento di S. Antonino, dove stavasene sonnacchioso, mostrandosi codardo, e timido (1533).
Intanto si venne a sapere che erasi fatto capo della sollevazione un vile mugnajo, che chiamavasi Antonino la Pilosa. Datesi dagli amanti della patria le provvidenze per la custodia della città, le di cui porte furono chiuse, trattene tre, che furono date in guardia a’ collegi degli artisti, e fattisi allontanare dal Molo le galee, acciò i forzati non si rivoltassero, e si unissero a’ congiurati, fu fatta ogni opra per indurre il vicerè, che erasene ritornato al palagio, a comparire in pubblico per calmare la plebe, ma si cantò, come suol dirsi, a’ sordi; ei ricusò di farlo, quantunque la sua presenza avesse potuto affogare al primo suo nascere quel moto popolare, sotto il pretesto che non era da esporsi il principe al dispregio, e al furore di una sfrenata moltitudine.
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