Ordinò adunque ad Asdrubale Termini, che era il capitano della città di Palermo, ed a Vincenzo Landolina, che n’era il pretore, che imprigionassero i due avvocati mentovati, un certo Lorenzo Potamia procuratore, e due preti zii del Pesce; il che fu tosto eseguito a’ 3 di dicembre 1649.
      La carcerazione di costoro avvertì i nobili, che erano a parte della congiura, che questa era già nota al governo, e che non aveano altro scampo, che quello di abbandonare, come fecero, il regno: che era lo scopo del vicerè, che non volea imbrattarsi le mani nel loro sangue. Il solo conte di Ragalmuto cognato del conte del Mazzarino volle restarsene: immaginando, che se fuggiva, si sarebbe dichiarato colpevole; della quale risoluzione ebbe di poi a pentirsi. In Messina ancora fu carcerato l’abate Gaetani uno dei congiurati. I presi, nello esame, che fu loro fatto, non furono del pari facili a confessare; il Gaetani e il Giudice rivelarono subito tutto l’ordine della congiura; ma il Pesce e il Potamia tennero fermo per qualche tempo, sostenendo di non avervi avuta parte veruna; sebbene poi convinti furono costretti a dichiararsi rei.
      Sua altezza intanto per sopire questa cospirazione, si determinò a partirsi da Messina, ed a venire in Palermo, dove arrivò ai 12 dello stesso mese di dicembre. Vi entrò di notte privatamente, e andossene al regio palagio, e nel giorno seguente recossi in pompa al duomo. La prima sua sollecitudine fu quella di costituire tosto i giudici, per esaminare il delitto di coloro, ch’erano stati carcerati, e ne spedì il dispaccio ai 14 di esso mese.