Si trattenne pochissimo tempo in questo viaggio; imperocchè ai 17 dello stesso mese fu di ritorno nella capitale.
Ci è ignoto se sia vero l’aneddoto, che ci lasciò registrato il Caruso (1646), non avendo altro testimone, che lo confermi. Scrisse egli, che il vicerè, e i suoi ministri stavano sempre in qualche sospetto, che vi fossero delle intelligenze nella nostra isola co’ Francesi; e perciò aveano sempre l’occhio rivolto alle particolari adunanze, che vi si teneano. In Siracusa eravi una unione di letterati, che si facea chiamare la setta de’ filosofi, i quali teneano corrispondenza con certi cavalieri messinesi portati ancora eglino a coltivare le scienze. Sospettò il duca dell’Infantado, che codesti congressi sotto l’apparenza di letterarie assemblee non avessero un altro obbietto, e perciò chiamò a Palermo diversi di quegli accademici, così siracusani, che messinesi, de’ quali il detto storico ci addita uno per uno i nomi. Chiaritosi di poi questo vicerè della verità, e conosciuto che costoro erano unicamente intenti allo studio delle belle lettere, e della mattematica, li lasciò partire liberamente, e li confortò a proseguire nella illustre gloriosa carriera. Non è inverisimile in un governo spagnuolo, e pieno di sospetti, che possa essere accaduto questo fatto nel modo, che ci viene raccontato.
Ma il duca dell’Infantado era divenuto per la sua alterigia poco accetto alla nazione (1647). Vuolsi inoltre ch’ei in Roma, volendo fare una superba comparsa come ambasciadore del re Cattolico, avesse contratti considerabili debiti, che contava di estinguere nel viceregnato di Sicilia.
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