Questo amabile cavaliero, ch’era dotato di sufficienti talenti per governare, incontrò la piena soddisfazione del pubblico, e la di lui dolcezza, la umanità, e la maniera, con cui accogliea i ricorrenti, lo resero la delizia della nazione, la quale veniva di provare l’asprezza dell’altiero duca dell’Infantado. Ma se egli fu diverso dal suo antecessore circa il modo di trattare i sudditi del re, non si discostò nondimeno dalle pedate del medesimo intorno alla esecuzione della giustizia. Severo del pari, ed implacabile, volle che si punissero i delinquenti, così ricercando la tranquillità, e la sicurezza del regno.
      Lo zelo però per il bene della Sicilia, da cui era animato questo vicerè, rilusse sopra ogni altra cosa nella esatta diligenza, ch’ei adoperò, per tenerla lontana dal contagio, di cui era minacciata. Già da molto tempo trovavasi la Sardegna afflitta dalla peste, e si erano per tutto il regno dati gli ordini opportuni, e rigorosi per vietare lo sbarco a qualunque persona, che venisse da quell’isola. Or nell’anno 1656 giunse in Napoli da quelle parti un vascello carico di soldatesche, cui o per trascuraggine dei guardiani della sanità, o perchè fuvvi dell’inganno, essendosi esibite le patenti di Genova, o perchè finalmente il vicerè conte di Castillo non volle trattenere di vantaggio i soldati a bordo, fu data pratica. Costoro erano attaccati dal pestifero morbo, che in una popolosa città, qual’è Napoli, presto si dilatò. Se ne accorsero di leggieri i medici, uno de’ quali francamente ne avvisò i magistrati; ma in premio ne fu gastigato, e confinato in una oscura prigione, del che atterriti gli altri medici si guardarono di palesarlo.