Non usandosi adunque verun ordine nel separare gli appestati da coloro, ch’erano sani, il contagio si diffuse per tutto quel regno, e principalmente ridusse quella capitale un sepolcro, essendovi morti, se la fama non mente, quattrocento mila abitanti (1651).
Scoppiò codesto male sensibilmente in quel regno nel mese di maggio, e a’ 2 di giugno ne pervennero le sicure notizie in Palermo. Il duca di Ossuna, volendo salvare dal vicino pericolo la Sicilia, si occupò interamente col senato, e co’ deputati detti della sanità a preservarla, e promulgò da principio un bando, con cui vietò sotto pena della vita per tutto il regno il ricevere alcuna barca, che venisse da Napoli. Prescrisse inoltre sotto la stessa pena, che ciascheduno dovesse palesare tutte le persone, che fossero arrivate prima del bando da quel regno. In riguardo alla città di Palermo ordinò, che tutti gli stranieri, che vi dimoravano, dovessero comparire alla officina del maestro notaro della città, per farvi registrare il proprio nome.
Uniformemente agli ordini viceregî il senato di Palermo dispose delle guardie per tutti i luoghi marittimi presso la città, dove si potesse sbarcare, affine d’impedire ogni approccio; e furono col permesso viceregio inalzate due forche, l’una alla Garita, e l’altra presso Piè di Grotta, dove suol stare la guardia della sanità, ad oggetto d’incutere timore a coloro, che invigilar deveano, perchè non entrasse veruno in città per la via di mare, che fosse infetto. Si fecero insieme chiudere alcune porte, e a quelle, che per il commercio doveano restare aperte, furono da sua eccellenza destinati i nobili per custodirle (1652). Si raddoppiarono le diligenze, quando giunsero replicate infauste notizie non solo dell’aspro macello, che facea la peste in Napoli, ma ancora di essersi già comunicata allo stato pontifizio, e di avere penetrato sin dentro le mura di Roma.
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