Di poi a mano armata furono levate, non si sa perchè, le gelosìe, che stavano alla cattedrale attorno al coro. Non lasciò dal suo canto l’arcivescovo di far valere i suoi diritti; pubblicò egli varie scomuniche, e mandò monitorî contro i ministri del vicerè, e così si accanivavo gli animi, dell’uno, e dell’altro. Ma siccome le armi delle quali facea uso il prelato, non erano atte a respingere la forza, che adopravasi dal vicerè, così egli per iscansare le ulteriori offese, prese lo espediente di allontanarsi da Palermo sotto il pretesto di fare la visita per la sua diocesi (1683).
Maggiori furono i disturbi fra il conte di Ayala, e i Messinesi. Costoro mal soffrivano la dimora di esso in Palermo, la quale feriva il privilegio, che era costato tanti milioni alla loro patria, e mormoravano contro di lui, scrivendone svantaggiosamente a Madrid, dove nel consiglio d’Italia eravi il reggente Ansalone, che non lasciava di appoggiare le lagnanze de’ suoi concittadini. Questi susurri de’ Messinesi, e i loro ricorsi alla corte, essendo abbastanza noti al vicerè, istizzirono il di lui animo, che giurò di prenderne vendetta. Il primo sagrificato al di lui furore fu il maestro razionale Pietro Fama, che si carteggiava coll’Ansalone. Costui nel mese di maggio fu sospeso dalla carica, e mandato prigione nella isola della Favignana. Arrivò in esso mese l’ordine della corte, che si pubblicasse la pace stabilita sino dall’anno scorso, e nel dì 19 fu promulgata per tutto il regno nelle pubbliche piazze, e con tutte le solenni formalità, e furono allora replicate le feste (1684).
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