Gl’inviati messinesi arrivati a Madrid ebbero la sorte di fare giugnere alle orecchie del re Cattolico le loro doglianze contro il conte di Ayala, e per mezzo del loro concittadino duca della Montagna, ottennero quanto bramavano. Fu disapprovata la condotta di questo vicerè, e gli fu ordinato, che non più molestasse i senatori, e la città di Messina. Non fu fatto motto alcuno del delitto d’impero, ch’eglino commesso aveano, carcerando, strapazzando, e condannando al tormento della fune il percettore regio, che d’ordine del vicerè esigea in Milazzo le tande: delitto gravissimo, che meritava un’esemplare castigo. Noi fra breve osserveremo quanto questa condiscendenza sia stata infausta ai Messinesi stessi, e quanto sia costato alla monarchia di Spagna lo averli in questa occasione accarezzati. Io non intendo di approvare la violenta condotta tenuta dal conte d’Ayala uomo duro, ed austero; ma non perchè questi avea colle sue procedure oltrepassati i limiti del dovere, era di mestieri di lasciare impuniti i delitti contro le regalie commessi nella carcerazione, negli strapazzi, e nel gastigo dato ad un ministro regio, qual era il percettore. Fu tale la potenza dello Ansalone in quella corte, che appena terminato il governo triennale di questo vicerè, senza frapporvisi dimora, gli fu dato un sostituto, ed ei fu richiamato in Ispagna.
I Palermitani non ebbero molto a dolersi del conte di Ayala. La costante dimora, che ei fece per tre anni nella loro città, e la maniera dura, con cui trattava i Messinesi, per le consapute rivalità, non poteano che piacere al volgo.
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