Fu esaminato, dove fosse più espediente che le galee facessero la quarantina; nè mancarono di quelli, che suggerirono, che si potesse scegliere per lazzaretto il molo di Palermo, o la tonnara di Solanto, per confortare in qualche modo il piagato cuore del vicerè colla vicinanza dei suoi. Forse egli vi avrebbe aderito; ma ne lo distolsero due cartelli, che si viddero attaccati per la città. In uno, che comparve appeso alle forche nella piazza della Marina, vi si leggeva: Charitas, e nell’altro, che fu affisso alla casa, dove abitava il consultore, stava scritto: Justitia. Conoscendo il conte di Santo Stefano, che questi cartelli, comunque non lo ledessero, indicavano abbastanza il sospetto, in cui erano i cittadini, che non si sarebbe in questa occasione usato tutto il rigore prescritto; affine di addimostrare la sua integrità, determinò co’ suoi ministri, che il figliuolo, e la nuora purgassero la contumacia di quaranta giorni in Messina nel luogo chiamato: le case pinte; ed acciocchè eglino, e i loro familiari non soffrissero in questo spazio di tempo la mancanza dei rinfreschi nello eccessivo caldo di quella stagione, e delle vettovaglie, spedì a Messina una galea carica di viveri, e di altri ristori; ed ordinò, acciò stessero più agiati, che porzione dello equipaggio passasse in questa terza galea, che sarebbe stata soggetta alla stessa contumacia (1852). Riscosse il conte di Santo Stefano per queste sue prudenti risoluzioni le lodi, e gli applausi universali.
      Terminato il corso de’ quaranta giorni, venne in Palermo il marchese di Solera colla signora Teresa della Cerda sua sposa, e furono accolti dall’impaziente padre con eccessi di tenerezza, e alloggiati nel regio palagio.