I tintori si fermarono per la difesa della vicaria, e gli altri artisti corsero per custodire il palagio senatorio. In breve la città restò chiarita del fatto, e si acchetò.
Sopravenendo nondimeno la notte, e dubitandosi che i malcontenti non profittassero di questo errore, per mettere in allarme la città, e rubare a loro voglia, furono fatte le ronde. Nulla accadde di sinistro, e solo venne nelle mani della giustizia Carlo Agosta, che si era rifuggito nel convento di s. Cita. Dopo due giorni furono anche carcerati i due figliuoli del pittore, e un figlio dell’Agosta, che si era ritirato a Carini sua patria. Fattosi il processo al Gianguzzo, si venne a capo di sapere, come egli stava tramando una congiura, per cui intendea co’ suoi compagni d’impossessarsi del castello, di ucciderne il castellano, e di far mano bassa sopra i ministri e la nobiltà, e di chiamare gli Austriaci. Un ferraro chiamato Agatino Quaranta era a parte di questa cospirazione, e la confidò ad uno argentiere di famiglia Castronovo. Questo onesto cittadino ne avvisò subito il pretore. Dovea la detta sollevazione scoppiare a’ 29 di giugno giorno dedicato a s. Pietro, e Paolo; ma non potendosi per allora eseguire, fu differita per i 15 di luglio giorno festivo di s. Rosalia: il che diede tempo al pretore, sull’avviso ricevutone dal Castronovo, di prevenirne i ministri della giustizia, affine di apportarvi l’opportuno riparo. Furono carcerati gli altri congiurati, e nel giorno 13 di agosto furono trovati appiccati sulle forche il Gianguzzo, i due suoi figliuoli, e l’Agosta.
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