I nostri regni erano in guerra colla Porta, e colle perniziose tre reggenze, di Tripoli, di Algieri, e di Tunisi, i di cui abitanti infestavano i nostri mari, e predavano le nostre barche, che non erano così forti, quanto bisognava per rintuzzarli. Oltre il pericolo, che correvano i vassalli del re, posto ancora che avessero forze bastanti per vincere, era sempre di poco momento il profitto, che poteano trarre dalla vittoria, a paragone di ciò, che arrischiavano. Stando i corsari in mare unicamente per predare, non portano punto mercatanzie, ed essendo vinti, non cade nelle mani dei cristiani, che la sola barca, per lo più fragellata, ed un prodigioso numero di schiavi, che sono più presto di peso, che di utile a’ conquistatori: quando allo incontro, se per sorte i pirati s’impossessano di un bastimento mercantile, oltre lo acquisto che fanno del legno, e degli attrezzi militari, vi trovano le ricchezze, che vi sono caricate, e traggono ancora un considerabile vantaggio dagli schiavi, che sono in loro potere, per il riscatto, che poi ne fanno o i parenti, o le pie opere della redenzione de’ cattivi. Volendo adunque il re Carlo liberare i suoi vassalli da codesti pericoli, e rendere sicuro il loro commercio, cominciò dal procurare un trattato di pace, e di libera navigazione colla Porta ottomana, che fu conchiuso in questo anno dal cavalier Finocchetti, plenipotenziario di S.M. Il vicerè, cui fu comunicata la notizia di essersi aperto un vicendevole commercio fra gli stati del gran Signore, e i due regni delle Sicilie (2354), fe [562] promulgare questo trattato dal pubblico banditore colle solite solennità a’ 26 di dicembre (2355), il di cui sunto essendo lo stesso di quello fatto con Tripoli, si darà in appresso.
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