Nasceano inoltre giornalmente delle contese fra i consolati di terra, e quelli di mare, e fra questi ancora l’uno cercava di attribuirsi l’autorità dell’altro: per la qual cosa frequenti erano i ricorsi al soglio reale, e il re, quantunque dasse le dovute provvidenze, cominciava già a conoscere gl’inconvenienti, che nascevano dallo esorbitante potere, che si attribuivano. Or in questo parlamento fra le grazie domandate dal corpo della nazione al sovrano, fu la prima quella, che i consolati di mare fossero aboliti, come inutili, e gravosi allo stato, e che fosse riformato il supremo magistrato del commercio, il quale avea ridotto ogni menoma cosa, che riguardava il traffico, così interno, che esterno, sotto la sua ispezione, e si era così usurpata una illimitata podestà sopra tutto il regno, a discapito de’ tribunali. Pregò dunque il re a restringere il potere del medesimo al solo commercio cogli stranieri, che non abitavano in Sicilia, vietandogli d’ingerirsi negli altri affari, ed in particolare nell’agricoltura, e in tutto ciò, che riguardava la interna negoziazione del regno (2371). Il saggio monarca, volendo compiacere i suoi fedeli vassalli, diede per allora alcuni ripari (2372), e differì ad un altro tempo le sue reali provvidenze.
Fu l’anno seguente 1743 funestissimo alla Sicilia per la peste, che assalì la città di Messina, e poi si diffuse per i contorni di essa, mietendo le vite di migliaia di persone. Nel mese di febbraio di questo anno approdò in detta città una barca genovese, carica di grani, di lana, e di tabacchi, il di cui padrone Jacopo Bosso, col finto nome napolitano di Aniello Bava, e colla bandiera del nostro re, disse che veniva da Messalongi, piccolo seno in levante, e presentò le sue patenti nette, come si dice nel linguaggio di marina.
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