Fu osservata con tenerezza questa divota funzione. Nel duomo si trovò il senato per riceverli: l’arcivescovo celebrò la messa pontificale, e comunicò quei meschinelli. Fu poi recitato un grazioso ragionamento, nel qual fu celebrata la munificenza reale, e commendato lo zelo del Balì Bonanno (2402), che da che trovavasi in Napoli, era stato il promotore di questa santa opera, e ne avea ottenuto dal pietoso re il permesso.
Continuava a dimorare in Messina il duca di Laviefuille, intento a perfezionare lo amato progetto di restituire al primiero lustro, e all’antica opulenza quella città. Fin dall’anno 1728, governando l’augusto imperatore Carlo VI, si era accordata la grazia alla medesima di avere porto, e scala franca, e si erano ancora promulgate le istruzioni per regolarsi il commercio. Ma per quanti privilegi avessero i Messinesi ottenuti, per richiamare nel loro porto l’abbondanza, e le ricchezze, nondimeno o nulla ottennero, o fu piccolo il commercio, che vi si introdusse, nè ebbe quella rapidità, che la creduta felice situazione (2403) di quella città, e le grazie accordate dal governo [583] promettevano. Esaminando il vicerè le cause di questa decadenza, gli fu insinuato, che intanto in Messina non era florido il commercio, perchè mancava una compagnia di mercadanti, i quali unendo insieme un fondo rispettabile di denari, promovessero le arti, e le manifatture di quei generi, che la Sicilia somministrava, richiamassero quelli, che mancavano alla medesima, allettassero gli esteri a portare le loro mercatanzie, o a provvedersi delle nostre, e rendessero vivo e fermo il traffico.
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