I vescovi dappertutto coi loro editti, e costituzioni sinodali si sono fatti sempre un dovere di apporvi qualche riparo; ma lo hanno fatto con quella moderazione, ch’era ignota a Mr. Cusani, al di cui violento naturale non andava a genio quel detto (2420):
Est modus in rebus, sunt certi denique fines,
Quos ultra, citraque nequit consistere rectum.
Quel fulminare sospensioni, e scomuniche maggiori; quel volere, che queste censure s’incorrano issofatto, nè possano assolversi, se non con la volontà del prelato, era un portare oltre i limiti della pastorale mansuetudine il rigore delle leggi, ed era un fare uno enorme abuso della podestà delle chiavi. Le povere carcerate, vedendo troncate in un baleno dalla falce arcivescovale tutte le loro costumanze, e trovandosi esposte per ogni menoma trasgressione alla scomunica, unitesi con una confederazione fra di loro, fecero ogni opra presso lo arcivescovo per mezzo dei loro protettori (2421) per farlo ricredere, e indurlo almeno a togliere le scomuniche, che più che ogni altra cosa, tormentavano le tenere loro coscienze. Ma come le rimostranze fatte all’arcivescovo si trovarono inutili, fu fatto ricorso al governo.
Il marchese Fogliani prevedeva le funeste conseguenze, che sarebbono nate, se durava questo scompiglio nei monasteri delle monache (2422), e volendo impedirle, dopo un maturo esame stimò, che l’unico espediente era quello, senza fare veruno atto pubblico, di pregare lo arcivescovo di rivocare da sè lo editto, che avea posto in rumore tutta la città. Fu incaricato di questa commissione il consultore marchese Cavalcanti, il quale parlò al prelato, che sotto varî pretesti si scusava dal poter compiacere S.E.: ma siccome il consultore colla sua energia gli facea rilevare gl’inconvenienti, che ne sarebbono nati, e che sarebbe stato peggio per lui, s’era costretto a farlo per ordine del governo, ne ottenne per ultima risposta, che avrebbe consultati i teologi, e col loro voto si sarebbe risoluto a far ciò, che fosse necessario.
| |
Fogliani Cavalcanti
|