Non sapendo cosa farsi, chiamò il sacro consiglio, e molti nobili, perchè lo assistessero, e gli suggerissero i mezzi più opportuni per isfuggire il pericolo. I voti de’ ministri, e de’ magnati non erano liberi, perchè volentieri egli ascoltava gli avvisi de’ suoi adulatori, che lo lusingavano ancora; e se alcuno coraggioso ebbe lo spirito di palesargli il fatto, come stava, e di dirgli che non vi era altro mezzo in quel frangente, che quello di dimettere il governo, fu rimprocciato da’ corteggiani, come quello che consigliava una vile, ed infingarda risoluzione.
In questo stato di cose fu preso lo espediente di mandare de’ pacieri a’ popolani, per udire cosa volessero. La prima dimanda fu, che si facesse ritirare la truppa, che stava squadronata nella piazza del palagio, dove eglino, comunque armati, non ardivano di farsi vedere. Furono in ciò compiaciuti, e le soldatesche rientrarono nel medesimo, e nel quartiere. Questo primo passo li rese arditi ad avvicinarsi in detta piazza fino sotto i balconi dello arcivescovo, che non lasciava da uno di essi di esortarli a dimettere il loro strano pensiero, e a ritirarsi; ma cantò a’ sordi. Eglino non si credeano sicuri, e chiesero che si consegnassero loro i cannoni, ch’erano ne’ due fortini presso il regio palagio. Per guarirli da questa frenesia, fu pensato di farli custodire da due [639] nobili ben affetti alla plebe, e vi salirono infatti, per impedire che se ne facesse uso, Giovanni Ventimiglia marchese di Geraci, e il principe Muzio Spadafora, i quali, malgrado il gran caldo, giacchè soffiava il vento di scirocco, si sagrificarono a stare tutta quella mattina esposti ivi allo ardente sole.
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Giovanni Ventimiglia Geraci Muzio Spadafora
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