La forza era nelle mani di costoro, e bisognava mostrare di fidare nel loro attaccamento alla corona, per quietare perfettamente la città, fino che il tempo non avesse dato agio di disarmarli. Le ronde adunque per la capitale furono fatte dagli artisti, ciascheduna di un collegio, alle quali presedeva sempre un cavaliere, il quale trattava i medesimi con lauti rinfrescamenti. Bisogna confessare, che mentre eglino guardarono la città, fu la medesima libera da’ malandrini, nè successe alcun furto, o disordine. Queste ronde coll’assistenza de’ cavalieri durarono fino agli 8 del mese di novembre, nel qual giorno furono esenti eglino, e gli artisti dal rondare, tornando a farlo i birri del capitano, e della gran corte. Ciò però, che dava ombra nel vedere i collegi delle arti armati, era appunto, che la giustizia tacea, nè poteva adoprare la sua forza, e bisognava ricorrere agli stessi consoli, i quali, come se fosser giudici, esercitavano il potere esecutivo de’ magistrati.
Date queste provvidenze, e confinati nel castello i forzati, ch’erano i più pericolosi nemici, si spedì una feluga alla corte per far sapere al monarca la catastrofe dei 19, e 20, e quanto si era operato, per tranquillare la capitale. Scrissero in questa occasione al re, e al marchese Tanucci, lo arcivescovo governante, il senato di Palermo, il sacro consiglio, la deputazione del regno, e il capitano giustiziere della città. Rappresentarono il tragico spettacolo di quel giorno, la sorte di non essersi sparsa una goccia di [643] sangue, e lo stato, in cui allora si trovava la capitale; ed implorarono dalla clemenza del sovrano il perdono, e dal ministro i buoni uffizî a favore di questi sconsigliati, per ottenerlo.
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Tanucci Palermo
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