Sul corridoio s’apre una dispensa buia, ove la sera non entro mai; perché non so che ci possa essere fra quei tini e quei vasi e quelle casse vecchie, quando dentro non v’è qualcuno con una lucerna a illuminarne un cantuccio, e a farne sprigionare un tanfo di muffa, misto con odor di sapone, di sottaceti, di pepe e di caffè, in un soffio solo. Poi vi sono i due salotti: il salotto nel quale ci tratteniamo la sera mia madre, io e Peggotty – perché Peggotty sta sempre con noi quando ha finito di rigovernare e non ci son visitatori – e il salotto di cerimonia, dove ci tratteniamo la domenica: sontuoso ma non così comodo. Il salotto di cerimonia mi fa sempre una certa impressione di tristezza, perché Peggotty m’ha narrato – non so precisamente quando, ma certo alcuni secoli fa – dei funerali di mio padre, e della gente vestita a nero che s’era raccolta là dentro. Ivi mia madre una sera di domenica legge a Peggotty e a me come Lazzaro fosse risuscitato dal sepolcro. E io ne sono così atterrito, che esse son costrette a sollevarmi dal letto, e a mostrarmi dalla finestra il cimitero silente, con tutti i morti a riposo nelle tombe, sotto la luna solenne.
Non v’è nulla in nessuna parte che uguagli il verde dell’erba di quel cimitero; nulla più ombroso di quegli alberi; nulla più calmo di quelle pietre sepolcrali. Quando m’inginocchio, la mattina presto, sul mio lettino, in una cameretta attigua alla camera di mia madre, e guardo fuori, vi veggo le pecore pascere tranquillamente. Veggo la luce rosea splendere sulla meridiana, e dico entro di me: «Chi sa se la meridiana è contenta di poter segnare ancora l’ora?
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Peggotty Peggotty Peggotty Peggotty Lazzaro
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