Ora, in tutto il tempo della mia assenza, ero stato di nuovo ingrato verso casa mia, avendoci pensato poco o nulla. Ma non appena sulla via del ritorno, la mia coscienza infantile mi sollecitò con la faccia austera del rimprovero; e, con la convinzione d’esser colpevole, sentì che casa mia era il mio nido, e che mia madre m’era confortatrice ed amica.
Questo sentimento diventava più vivo, a misura che andavo innanzi. Più familiari mi diventavano i luoghi che incontravo, più acuta si faceva l’ansia di arrivare e di correre nelle sue braccia. Ma Peggotty, invece di partecipare a questi trasporti, tentava di frenarli (benché con molta dolcezza) e si mostrava confusa e impacciata.
A suo dispetto sarebbe apparso, finalmente, il Piano delle Cornacchie, quando al cavallo fosse piaciuto, e apparve. Come lo ricordo bene, in un grigio pomeriggio, sotto un cielo triste e piovoso!
La porta s’aprì, e un po’ ridendo e un po’ piangendo di dolce commozione, cercai mia madre. Invece di lei, c’era una domestica che non conoscevo.
– Ebbene, Peggotty – dissi a precipizio? – non è tornata a casa?
– Sì, sì, Davy – disse Peggotty. – È tornata. Aspetta un po’, Davy; ti debbo... ti debbo dire una cosa.
Per l’agitazione che l’aveva invasa e per la sua poca abilità nel discendere dal carro, Peggotty ebbe un istante l’aspetto d’uno strano festone; ma mi sentivo troppo sconvolto per farglielo rilevare. Quand’ella fu discesa, mi prese per la mano; mi condusse – e io mi domandavo perché – nella cucina, e chiuse la porta.
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