Mia madre lasciò il suo lavoro, e si levò in fretta, ma timidamente, mi parve.
– Ora, Clara – disse il signor Murdstone – ricordati! Frenati; ricorda di frenarti sempre. Caro ragazzo, come stai?
Io gli diedi la mano. Dopo un momento di attesa, andai a baciar mia madre: ella mi baciò, mi carezzò dolcemente la spalla, e si sedette, ripigliando il lavoro. Io non osavo guardar lei, non osavo guardar lui, e sentivo benissimo che egli ci guardava entrambi. Mi volsi alla finestra a fissare alcuni arbusti che chinavano le loro chiome nel freddo.
Appena me la potei svignare, mi rifugiai su. La mia cameretta non era più quella, e dovevo andare a coricarmi molto lontano. Errai per il pianterreno, in cerca di qualche cosa che fosse la medesima di prima; e vagai per il cortile. Ma subito fui costretto a fuggire, perché il canile vuoto era occupato da un grosso cane – dalla bocca profonda e dal pelo nero come Lui – che digrignò i denti vedendomi e diede un balzo per addentarmi.
IV.
CADO IN DISGRAZIA
Se la camera dove era stato trasportato il mio letto fosse un essere animato da chiamare a testimone, la chiamerei anche oggi – chi sa chi usa dormirvi oggi! – a dir per me con che cuore gonfio vi entrassi. Arrivai seguito per tutti i gradini dai latrati del cane nel cortile e, guardando la camera con un occhio sconvolto e strano simile a quello con cui mi guardava la camera, mi sedetti e, incrociando le piccole mani, mi misi a pensare.
Pensavo alle cose più disparate. Pensavo alla forma della stanza, alle screpolature nel soffitto, alla carta sul muro, alle incrinature e alle bolle d’aria sul vetro della finestra che mettevano delle arricciature e dei gonfiori sugli oggetti esterni, al lavamano che zoppicava sulle sue tre gambe e aveva certo atteggiamento sconsolato che mi rammentava in qualche modo la signora Gummidge sotto l’influsso del vecchio.
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Clara Murdstone Gummidge
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