Io piangevo frattanto, ma, tranne una sensazione di freddo e di abbandono, posso assicurare che non sapevo perché piangessi. Finalmente, nella mia desolazione, cominciai a pensare ch’ero terribilmente innamorato dell’Emilietta, e ch’ero stato strappato lungi da lei per andar lì, dove sembrava che nessuno mi volesse o si curasse di me, neanche tanto quanto la metà di lei. Questo mi piombò in tanta angoscia, che finii col rannicchiarmi in un angolo del copripiedi e con l’addormentarmi piangendo.
Fui svegliato da qualcuno che diceva: «È qui!» e mi scopriva la testa che scottava. Mia madre e Peggotty erano venute a cercarmi, ed era l’una o l’altra che parlava.
– Davy – disse mia madre – che hai? Pensai strana quella domanda da parte sua, e risposi: «Nulla». Ricordo d’aver voltato la faccia per nascondere le mie labbra tremanti, che le rispondevano con maggior sincerità.
– Davy – disse mia madre. – Davy, figlio mio!
Nessuna parola avrebbe potuto commuovermi tanto, allora, come quel suo appellativo di figlio. Nascosi le mie lagrime nelle coltri, e quand’ella fece per sollevarmi, l’allontanai con la mano.
– Questa è opera tua, Peggotty, cattiva che sei! – disse mia madre. – Ne sono assolutamente sicura. Vorrei sapere come non ti rimorda la coscienza d’aizzare mio figlio contro di me o contro qualcuno che mi è caro. Che ti sei messa in mente, Peggotty?
La povera Peggotty levò le mani e gli occhi, e rispose soltanto con una specie di parafrasi della preghiera che io ero solito ripetere dopo il pasto: «Dio vi perdoni, signora Copperfield, e per ciò che avete detto in questo momento, possiate non pentirvi mai».
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