Lavati la faccia, e vien giù con me.
M’indicò il lavamano, che io avevo paragonato alla signora Gummidge, e col capo mi fece cenno di obbedirgli subito. Ne dubitavo poco allora, e ne dubito meno ora, che mi avrebbe picchiato senza la menoma esitazione, se non l’avessi fatto.
– Mia diletta Clara – egli disse, quando ebbi eseguito l’ordine e m’ebbe accompagnato nel salotto, tenendomi sempre la mano sul braccio; – non sarai rattristata mai più, spero. Noi sapremo render migliore questo piccolo capriccioso.
Dio m’è testimone che sarei diventato migliore per tutta la vita, sarei diventato un altro forse, se allora fosse stata pronunziata una parola gentile. Una parola d’incoraggiamento e di spiegazione, di pietà per la mia ignoranza infantile, di benvenuto a casa, di assicurazione che ero in casa mia, avrebbe potuto rendermi, d’allora, rispettoso verso di lui nell’intimo, invece che ipocritamente all’esterno, e avrebbe potuto farmelo onorare, invece di farmelo odiare. Credo che mia madre fosse dolente di vedermi stare in piedi nella stanza così sgomento e strano, e che tosto, come mi vide appressarmi timidamente a una sedia, mi seguisse con sguardi anche più dolenti, come se avesse desiderato maggior scioltezza nei miei passi infantili. Ma la parola non fu detta, e il tempo di dirla trascorse.
Desinammo soli, tutti e tre. Egli pareva innamoratissimo di mia madre – e temo che questa per me fosse una ragione per amarlo di meno – ed ella di lui. Appresi da ciò che dicevano che una sorella maggiore di lui sarebbe venuta a star con loro, e ch’ era attesa per quella sera.
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Gummidge Clara
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