Mi veggo ancora intento a cogliere i rumori di tutte le vicende domestiche, il suono dei campanelli, il chiudersi e l’aprirsi delle porte, il mormorìo delle voci, i passi sulle scale; le risate, i fischi o i canti di fuori, che mi parevano non so quanto tristi nella mia disgrazia e nella mia solitudine. Osservavo l’incerto passo delle ore, specialmente di notte, quando mi svegliavo credendo che fosse giorno, e m’accorgevo che la famiglia non era ancora andata a letto e che la notte doveva ancora trascorrere in tutta la sua lunghezza. I sogni e gli incubi più tristi mi turbavano il sonno; la mattina, a mezzogiorno, la sera, guardavo dal fondo della camera, vergognoso di mostrarmi alla finestra, per non far sapere che ero prigioniero, i ragazzi che si rincorrevano nel cimitero: mi meravigliavo di non sentir più il suono della mia voce; talvolta, all’ora del pasto, riacquistavo un po’ d’allegria che poi subito si dileguava; quindi assistevo all’inizio d’una pioggia la sera, tra un fresco odore di terra: la pioggia cadeva sempre più rapida fra me e la chiesa, sin che essa e il raccoglimento della notte parevano estinguersi nella tenebra, nella paura e nel rimorso. Tutto questo è stampato così vividamente e nitidamente nella mia memoria, che invece di pochi giorni ho l’impressione che quella vita durasse per anni.
L’ultima sera della mia reclusione, fui svegliato udendo bisbigliare il mio nome. Balzai sul letto, e sporsi le braccia nel buio, dicendo:
– Sei tu, Peggotty?
Non ebbi una risposta immediata, ma subito udii di nuovo chiamarmi, in tono così tremendo e misterioso, che mi sarei chi sa come impaurito, se non avessi pensato che la voce veniva certo per il buco della serratura.
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Peggotty
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