Eravamo partiti da Yarmouth alle tre del pomeriggio per essere a Londra verso le otto della mattina. S’era d’estate, e la serata era molto bella. Quando passavamo per qualche villaggio, cercavo di figurarmi gl’interni delle case e le occupazioni degli abitanti; e quando i ragazzi ci correvano dietro, e s’arrampicavano alla diligenza, facendosi trasportare per un po’ di strada, mi domandavo se avessero il padre vivo, o se a casa fossero contenti. Avevo perciò molto da meditare, oltre a correre continuamente col pensiero alla specie di luogo dove ero diretto – che era un terribile soggetto di riflessione. A volte, ricordo, tornavo a casa e da Peggotty, sforzandomi confusamente, di rammentarmi come mi fossi sentito e che specie di ragazzo solessi essere prima di mordere il signor Murdstone; ma non m’era possibile saperlo, ché mi sembrava d’averlo morso nell’antichità più remota.
La notte, molto fredda, non fu piacevole come la sera: messo fra due signori (quello dalla faccia rude e un altro), perché non precipitassi dalla diligenza, rimasi, quando li sorprese il sonno, quasi soffocato e completamente bloccato. A volte mi stringevano tanto, che non potevo fare a meno dal gridare: «Oh, per favore!», cosa che a loro non garbava affatto perché li svegliavo. Di fronte a me era una signora attempata, con un gran mantello di pelo, e nel buio rassomigliava più a un pagliaio che a una donna, tanto si teneva coperta. La signora aveva con sé un paniere, e non aveva saputo che farne per molto tempo, ma poi aveva scoperto che le mie gambe erano corte, e che lo poteva mettere sotto di me.
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