Entrava il sole per il finestrino, ma ella sedeva volgendogli la schiena, riparando il fuoco come se lo stesse amorosamente a covare per tenerlo caldo, invece di esserne scaldata, e fissandolo con sguardi di diffidenza. Finita la preparazione della mia colazione, la liberazione del fuoco le diede tanta gioia, che si mise a ridere forte e in verità non molto melodiosamente.
Sedetti innanzi al pane, all’uovo e alla fetta di lardo, con una scodella di latte accanto, e feci una squisitissima colazione. Mentre ancora l’assaporavo con gioia, la vecchia della casa disse all’insegnante:
– Avete portato il flauto?
– Sì – egli rispose.
– Sonate un poco – disse carezzevolmente la vecchia – sonate.
L’insegnante, allora, portò la mano sotto la falda dell’abito, e ne trasse il flauto in tre pezzi, li avvitò, e si mise immediatamente a sonare. La mia impressione, dopo tanti anni di considerazione, è questa: che al mondo non vi fu mai alcuno che sonasse peggio. Cacciava le più orribili note prodotte mai con qualunque mezzo, naturale o artificiale. Non so che sonate fossero – se pure eran sonate, di che dubito – ma l’effetto di quel concerto su di me fu, prima, di farmi pensare a tutte le mie disgrazie in modo che a pena potevo frenar le lagrime; poi, di togliermi l’appetito; e, finalmente, di farmi così sonnacchioso, che non mi riusciva di tener gli occhi aperti. Mi si cominciano a chiudere di nuovo, e comincio a chinar la testa, al ricordo. Ancora una volta la stanzina, con la credenza aperta nell’angolo, con le sedie a schienale rettangolare, con la scaletta ripida che conduceva alla stanza di sopra, e le tre penne di pavone spiegate sulla cappa del camino – ricordo che mi domandai entrando che avrebbe detto il pavone se avesse saputo dove sarebbe andato a finire lo splendore della sua veste – si dilegua al mio sguardo, e io chino la testa, e m’addormento.
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