Guardavo, con un gran sgomento, quella porta, e mi sembrava che i proprietari di tutti quei nomi – ve n’erano quarantacinque nella scuola allora, mi disse il signor Mell – gridassero tutti insieme, ciascuno a suo modo, di mandarmi a Coventry: « Guardatevene. Morde».
M’avveniva la stessa cosa con i tavolini e le panche. La stessa cosa fra le deserte file dei letti vuoti, che guardavo quando andavo a coricarmi o stavo sotto le coltri. Ricordo che sognavo tutte le notti di esser con mia madre, come una volta, o di conversare con Peggotty, o di viaggiare sull’imperiale della diligenza, o di desinare di nuovo col mio infelice amico il cameriere, e tutti mi guardavano gridando, perché, disgraziatamente per me, scoprivano che non avevo addosso che la camicia e quel cartello.
Nella monotonia della mia vita, e nella continua paura della riapertura della scuola, quante sofferenze! Avevo ogni giorno lunghi compiti da fare per il signor Mell; ma perché non c’era né il signore né la signorina Murdstone, li facevo senza incorrere in alcuna disgrazia. Prima e dopo, andavo a passeggiare nel cortile – sorvegliato, come ho già detto, dall’uomo dalla gamba di legno. Con quanta precisione rammento l’umidità intorno alla casa, le lastre verdi screpolate nella corte, il tino dell’acqua piovana che colava, e i tronchi scolorati di quei tristi alberi, che avevano gocciolato più pioggia e respirato meno sole di tanti altri. All’una desinavamo, il signor Mell e io, all’estremità superiore di un lungo refettorio nudo, pieno di tavole e d’odor di grasso.
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