Ecco un magnifico scherzo!» Fortunatamente anche la maggior parte dei ragazzi arrivavano tristi e abbattuti, e meno disposti a schiamazzare alle mie spalle, di quanto avessi temuto. Certo, alcuni mi ballavano intorno come selvaggi indiani, e la maggior parte non potevano resistere alla tentazione di fingere che io fossi un cane, e di carezzarmi e lisciarmi, per non farsi mordere, e dire: «Accuccia, accuccia!» chiamandomi con nomi canini. Fra tanti estranei, naturalmente, questo era umiliante; e mi faceva versare qualche lagrima; ma m’ero aspettato, dopo tutto, di peggio.
Ma non fui considerato come ammesso formalmente nel convitto se non quando arrivò G. Steerforth. Alla presenza di questo ragazzo, maggiore di me di almeno sei anni, che era ritenuto assai istruito ed era molto bello, fui condotto come al cospetto di un magistrato. Sotto una tettoia della palestra del cortile, egli da me volle essere informato minutamente dei particolari del mio castigo, e si compiacque di esprimere la sua opinione, dicendo che era «una bella vergogna»; cosa che da quel momento mi legò per sempre a lui.
– Quanto denaro hai, Copperfield? – disse, camminandomi a fianco, dopo aver giudicato la mia condizione in quei termini.
Io gli dissi sette scellini.
– Faresti meglio a darli a me perché te li tenga – egli disse. – Se non ti dispiace, però. Se no, no.
M’affrettai a seguire il suo amichevole consiglio, e aprendo il portamonete di Peggotty glielo rovesciai nella mano.
– Vuoi spendere qualche cosa ora?
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Steerforth Copperfield Peggotty
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