Ho nello stomaco ancora il senso di pesantezza del tepido pezzo di carne grassa (abbiamo desinato un’ora o due fa), e la testa mi pesa come il piombo. Darei un mondo per dormire. Seggo ed ho l’occhio sul signor Creakle, ammiccandolo come un giovane gufo; quando il sonno mi vince per un istante, ancora lo discerno come in una specie di nebbia mentre riga i quaderni d’aritmetica, finché non sento che m’arriva di dietro e mi sveglia a una più chiara percezione di lui, con una striscia rossa sulla schiena.
Ecco sono nella palestra di ricreazione, con gli occhi ancora affascinati da lui, benché io non lo scorga. Egli è rappresentato dalla finestra, a poca distanza dalla quale so che sta a desinare, e la guardo. Se egli mostra il viso lì su, il mio assume un’espressione di soggezione e di umiltà. Se guarda attraverso i vetri, il più ardito ragazzo (tranne Steerforth) arresta a mezzo un grido o uno strillo, e diventa pensoso. Un giorno Traddles (il ragazzo più disgraziato del mondo) rompe per caso con una palla i vetri di quella finestra. Rabbrividisco in questo momento con la terribile sensazione di quello spettacolo e della notizia che la palla è rimbalzata sulla sacra testa del signor Creakle.
Povero Traddles! Nell’attillatissimo vestito color di cielo che dava alle sue braccia e alle sue gambe l’aspetto delle salsicce tedesche, era il più allegro e il più disgraziato di tutti i ragazzi. Bastonato sempre – credo che in quel semestre venisse bastonato tutti i giorni, salvo un lunedì di vacanza in cui si prese dei colpi di riga sulle mani – diceva sempre di volerne scrivere a suo zio, ma non lo faceva mai.
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