Quei ragazzi, credo, erano in generale i più ignoranti di quanti mai ne furono al mondo: erano troppo maltrattati e troppo tormentati per imparar checché fosse; non potevano far di più per progredire di quanto si potesse fare in una vita di costante dolore, di martirio e di infelicità. Ma la mia piccola vanità e l’aiuto di Steerforth mi spronavano in qualche modo; e senza farmi evitare gran che, se mai, in fatto di castighi, mi fecero, per tutto il tempo che rimasi in quel luogo, un’eccezione alla regola generale, tanto che riuscii a raccogliere qua e là qualche briccica d’istruzione.
E in ciò mi giovai dell’aiuto del signor Mell, che per me aveva una simpatia che ricordo con gratitudine. Mi faceva male osservare che Steerforth, pronto in ogni occasione a umiliarlo, lo trattasse con sistematico disprezzo. Tanto più mi faceva male, in quanto avevo narrato subito a Steerforth che m’era impossibile non mettere a parte d’un segreto, così come lo mettevo a parte d’una torta e di altre tangibili possessioni, delle due vecchie che il signor Mell m’aveva condotto a visitare; e temevo sempre che Steerforth se ne uscisse a rinfacciarglielo.
Né io né il signor Mell avevamo pensato minimamente, quella prima mattina che feci colazione e m’addormentai al suono del flauto e all’ombra delle penne di pavone, alle conseguenze che sarebbero derivate dalla presenza in quell’ospizio della mia poco importante persona. Ma quella visita ebbe un effetto imprevedibile; e, nel suo genere, molto grave.
Un giorno che il signor Creakle era rimasto in camera sua indisposto, cosa che naturalmente diffuse la più viva gioia in tutta la scuola, regnò in tutta la mattinata la maggior confusione.
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