Poi che fu bevuto il tè, e attizzato il fuoco, e le candele smoccolate, io lessi a Peggotty un capitolo del libro dei coccodrilli, in memoria del vecchio tempo – ella se l’era tratto di tasca; e non so se ve l’avesse in serbo d’allora – e poi parlammo di Salem House, che mi riportò a indugiarmi su Steerforth, il mio cavallo di battaglia. Noi eravamo felici; e quella sera, l’ultima della sua specie, e destinata oramai a chiudere quel volume della mia vita, non mi passerà più di mente.
Erano quasi le dieci quando sentimmo un rumor di ruote. Ci levammo tutti, e mia madre mi disse in fretta che giacché era tardi, e che il signore e la signorina Murdstone vedevano di buon occhio che i ragazzi andassero presto a letto, avrei fatto meglio d’andare a coricarmi. La baciai, e salii con la candela in camera mia, prima ch’essi entrassero. Parve alla mia immaginazione infantile, mentre salivo verso la camera dov’ero stato prigioniero, ch’essi portassero una fredda raffica in casa, spazzandone, come una piuma, l’affettuoso sentimento familiare.
Mi sentivo impacciato ad andar giù a colazione la mattina, giacché dal giorno memorando del mio delitto, non avevo più posato gli sguardi sul signor Murdstone. Però, siccome dovevo pur andarvi, mi recai da basso, dopo aver fatto due o tre volte metà del percorso ed esser ritornato altrettante volte in spunta di piedi in camera mia. Finalmente mi presentai nel salotto.
Egli stava in piedi con la schiena contro il focolare, mentre la signorina Murdstone preparava il tè. Mi guardò fisso mentre entravo, senza mostrare affatto di riconoscermi.
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