Che sere, quando si accendevan le candele, e attendendosi che io m’occupassi, m’immergevo, non avendo il coraggio di leggere un libro divertente, in qualche arcigno e tremendo trattato d’aritmetica; quando adattavo le tavole dei pesi e misure a motivi musicali, come quello di «Rule Britania» o «Away with Melancholy»; quando esse non volevano star ferme per essere imparate, ma giravano inutilmente per la mia testa disgraziata, entrandomi da un orecchio e uscendomi dall’altro!
A che sbadigli e a che sopori mi abbandonavo, nonostante ogni sforzo per vincerli! Con che sbalzi mi destavo da quei sonnellini di contrabbando! Che lacuna mi pareva d’essere, alla quale nessuno badava, e che impacciava tutti; e con che sollievo sentivo la signorina Murdstone salutare il primo rintocco delle nove di sera, per mandarmi a letto!
Così si trascinarono i giorni, finché non giunse la mattina che la signorina Murdstone mi disse: «Ecco passato l’ultimo giorno!», dandomi l’ultima tazza di tè delle vacanze.
Non mi dispiaceva di andarmene. Ero caduto quasi in uno stato d’abbrutimento; e mi rianimavo un po’ pensando a Steerforth, benché dietro di lui si profilasse il signor Creakle. Apparve di nuovo Barkis al cancello, e di nuovo la signorina Murdstone disse nel suo tono d’ammonimento: «Clara!», quando mia madre si chinò su di me per dirmi addio.
Baciai lei e il bambino, e avevo una pena in cuore; ma non mi dispiaceva d’andar via; perché la lontananza tra noi c’era, e il distacco c’era, ogni giorno più. E non è tanto l’abbraccio che mi diede, fervido come poteva darmelo, che mi rivive nello spirito, ma ciò che lo seguì.
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