Era una specie di furgoncino per trasporti di pianoforti, dipinto di colore oscuro, e tirato da un cavallo nero con la coda lunga. V’era molto spazio per tutti.
Nel vedere i miei compagni di viaggio così allegri per quella scarrozzata e nel ricordare ciò che li aveva occupati, provavo un sentimento strano, che, credo, non ho più provato (forse, perché ora son più esperto). Non era rancore, ma paura, come se fossi stato gettato fra esseri coi quali non avevo alcuna comunanza di sorta. Essi erano molto allegri. Il vecchio sedeva davanti e guidava; i due giovani stavano di dietro, e per sentirlo, quand’egli diceva qualcosa, si chinavano l’uno da una parte e l’altra dall’altra del suo florido viso, fingendo di prestare qualche attenzione alle sue parole. Avrebbero scambiato qualche parola anche con me; ma io me ne stavo rannicchiato e desolato nel mio angolo, sgomentato e offeso dal loro amoreggiamento e dalla loro allegria, benché fosse tutt’altro che rumorosa, e quasi meravigliato che nessun castigo divino li colpisse per la loro durezza di cuore.
Così, quando si fermarono per dar l’avena al cavallo, e per mangiare anche loro e bere e darsi buon tempo, non potei toccar nulla ch’essi toccavano, ma rimasi a digiuno. Così, quando giungemmo a casa, scesi dalla vettura con la maggior sveltezza possibile, per non trovarmi in loro compagnia innanzi a quelle finestre solenni, che mi guardavano con gli occhi chiusi, una volta così lucenti. E, oh, come inutilmente m’ero domandato che cosa mi avrebbe fatto piangere al ritorno!
| |
|