L’Emilietta acconsentì, e mi permise di baciarla, dopo di che mi sentii abbastanza ardito di dirle che non avrei potuto mai voler bene a un’altra, e ch’ero preparato a versare il sangue di chiunque volesse aspirare al suo affetto.
Come rise l’Emilietta di tutto questo! Con che aria di gravità e di serietà, come se fosse immensamente più vecchia e più savia di me, l’incantevole fanciulla disse che io ero «uno sciocco», e poi rise così squisitamente, che dimenticai l’umiliazione di quell’epiteto per il piacere di guardarla.
Barkis e Peggotty si trattennero parecchio in chiesa, ma ne uscirono filialmente, e via a scarrozzare per la campagna. Mentre si correva, Barkis si volse a me e disse con una strizzatina d’occhio – a proposito, appena avrei immaginato prima che sapesse strizzar l’occhio:
– Che nome scrissi quella volta sul carro?
– Clara Peggotty – risposi.
– Che nome dovrei scrivere ora, se qui ci fosse un copertone?
– Ancora Clara Peggotty – suggerii.
– Clara Peggotty Barkis – disse con una risata che fece traballare il carro.
In una parola, s’erano sposati, e per null’altro erano entrati in chiesa. Peggotty aveva voluto che il matrimonio si celebrasse senza apparati, e così s’era fatto, e non v’erano stati spettatori della cerimonia. Ella parve un po’ confusa, quando Barkis diede questo annunzio della loro unione, e non poté abbracciarmi abbastanza in segno del suo inalterabile affetto; ma tosto si riebbe di nuovo, e si disse contenta che la faccenda fosse finita.
Arrivammo per una viottola a una piccola osteria, dove eravamo aspettati, e dove ci fu servito un pranzetto squisito.
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