M’informò inoltre che noi avevamo come compagno un altro ragazzo, e me lo presentò col nome straordinario di Fecola di Patate. Scopersi, però, che quel nome non gli era stato dato a battesimo, ma appiccicato nel magazzino, per il color del suo viso, che era pallido d’un bianco di farina. Il padre di Fecola era barcaiuolo, ma anche pompiere in un gran teatro, dove una giovane parente di Fecola – forse la sorellina – rappresentava i folletti nelle pantomime.
Non c’è parola che possa esprimere la mia segreta angoscia nell’ora che mi trovai precipitato fra quella gente. Confrontavo quelli che oramai sarebbero diventati i miei compagni d’ogni giorno con quelli della mia infanzia più felice – per non dire con Steerforth, Traddles, e gli altri; e sentivo crollar tutte le speranze che avevo vagheggiate, d’istruirmi e di segnalarmi un giorno. Il sentimento sempre vivo e attivo che oramai non mi rimaneva più alcuna speranza; l’umiliazione che provavo di quella abiezione; la pena che mordeva il mio cuore infantile; la persuasione che, di giorno in giorno, ciò che avevo imparato, e pensato, e prediletto, e che aveva svegliato la mia fantasia e spronato la mia emulazione, si sarebbe dileguato a poco a poco, per non ritornar mai più; tutto questo non si può scrivere. Quante volte Mick Walker s’allontanò nel corso di quella mattina, tante volte mescolai le mie lagrime all’acqua in cui lavavo le bottiglie, singhiozzando, come se avessi una incrinatura nel petto, che lo mettesse in pericolo di scoppiare.
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