Vuoi o non vuoi pagarmi? Senti, sì o no? Pagami! Su!». Non ricevendo alcuna risposta a questi insulti, egli arrivava, in un trasporto d’ira, fino alle parole «truffatori» e «ladri»; ma rimanendo anche quelle senza effetto, a volte si lasciava andare all’estremità di traversare la strada e di andare a urlare sotto le finestre del secondo piano, dove sapeva ch’era la camera da letto del signor Micawber. In quei casi, il signor Micawber si mostrava invaso da un affanno, e una disperazione tale da accennare (come vidi una volta, accorrendo a un grido della moglie) di portarsi il rasoio alla gola; ma mezz’ora dopo era occupato a pulirsi le scarpe con somma accuratezza, per quindi uscire a passeggio canticchiando un’arietta con la maggiore dignità possibile. La signora Micawber era precisamente della stessa elasticità. La vidi una volta alle tre del pomeriggio cadere in deliquio innanzi all’esattore delle imposte, e alle quattro mangiare costolette d’agnello panate e bere la birra (il tutto pagato con un pegno di due cucchiaini da tè). Una volta, tornando a casa più presto del solito, alle sei, dopo che era stato eseguito un sequestro in casa, la trovai distesa sul pavimento (naturalmente con un gemello) svenuta, accanto al caminetto, con la chioma scarmigliata; ma non la vidi mai più allegra di quella sera su una costoletta di vitello, innanzi al fuoco della cucina, nell’atto di parlarmi del papà e della mamma, e degli ospiti che essi solevano invitare.
In quella casa, e con quella famiglia, io passavo le mie ore di riposo.
| |
Micawber Micawber Micawber
|