Più d’una volta, recandomi in casa sua presto, mi dava udienza in un canapè a letto, con un occhio nero e una ferita in fronte, testimoni degli eccessi della vigilia (temo che egli fosse di natura litigiosa sotto i fumi del vino) sforzandosi, con la mano che gli tremava, di trovare gli scellini occorrenti in questa o quella tasca degli abiti sparsi sul pavimento, mentre la moglie, con un bambino in braccio e le calcagna fuor delle scarpe, non cessava un momento di strillare, rimproverandogli la sua vergogna. A volte aveva perduto il denaro, e mi pregava di ritornare più tardi; ma la moglie ne aveva sempre un po’ – glielo aveva tolto, forse, mentre era ubriaco – e sulle scale, in segreto, discendendo insieme con me, concludeva il contratto.
Fui presto noto anche dove si accettavano in pegno gli oggetti. Il signore che pareva il capoufficio, e stava dietro il banco, mi prese in gran considerazione, e spesso, ricordo, mi chiedeva di declinargli all’orecchio un nome latino o un aggettivo, o coniugare un verbo, mentre s’occupava del mio contratto. Dopo tutte queste gite, la signora Micawber faceva una piccola festa, che in generale era una cena; e quei pasti, non li ho dimenticati, erano d’una squisitezza particolare.
Finalmente le difficoltà del signor Micawber giunsero alla crisi, e una mattina egli fu arrestato e condotto nella prigione di King’s Bench nel Borough. Egli mi disse, uscendo di casa, che su lui allora era tramontato il dio del giorno – e in realtà credetti che il suo cuore fosse infranto e il mio col suo.
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