Ma non mai, fortunatamente per me certo, feci una sola conoscenza, o parlai a nessuno fra i molti ragazzi che incontravo nell’andare e venire dal magazzino, e nell’errare per le vie vicine, all’ora del desinare. Menavo la stessa vita segretamente infelice; ma sempre allo stesso modo solitaria e indipendente.
I soli mutamenti che ricordo furono, in primo luogo, che ero sempre più male in arnese; e, secondo, che mi sentivo oramai libero dal carico dei pensieri del signore e della signora Micawber; perché alcuni amici e parenti avevano promesso di aiutarli in quel frangente, ed essi se la passavano molto meglio in prigione che fuori, da parecchio tempo. Usai poi di far colazione con loro, in virtù d’un accordo i cui particolari mi sfuggono. Non ricordo più neppure a che ora s’aprissero i cancelli la mattina per lasciarmi entrare; ma so che spesso ero in piedi alle sei e che nell’intervallo attendevo di preferenza sul vecchio London Bridge, dove mi sedevo in una delle nicchie di pietra a osservare la gente che passava o a guardare, oltre il parapetto, il sole che splendeva sull’acqua, e illuminava la fiamma d’oro sulla cima del Monumento. L’orfana spesso mi raggiungeva colà, per sentir narrare da me storie sbalorditive delle banchine e della Torre; delle quali storie non so dir altro che credo che le credessi anch’io. Nella serata ritornavo alla prigione, e passeggiavo su e giù sulla spianata col signor Micawber; e giocavo alle carte con la signora Micawber, e sentivo da lei narrare le memorie del papà e della mamma.
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