» – «No». – «Vi spiacerebbe di sentirla leggere?». Se si mostrava la minima inclinazione a sentirla, il capitano Hopkins la leggeva con voce alta e sonora, parola per parola. Il capitano l’avrebbe letta ventimila volte, se ventimila persone, a una a una, avessero voluto sentirla. Ricordo l’enfasi di soddisfazione ch’egli dava a simili frasi come «I rappresentanti del popolo raccolti in Parlamento», «I petenti perciò si presentano umilmente alla vostra onorevole Camera», «Gli sfortunati sudditi della Vostra Graziosa Maestà»; come se le parole fossero qualche cosa di sensibile in bocca e deliziose al palato. Il signor Micawber, intanto, ascoltava con un po’ della vanità d’un autore, e contemplava (senza severità) le inferriate del muro di fronte.
Mentre io andavo su e giù tutti i giorni fra Southwark e Blackfriars, ed erravo all’ora del desinare nelle viuzze anguste ed oscure, le cui pietre erano logorate dai miei passi infantili, mi domandavo quanti di quei prigionieri mancassero in quella folla che soleva di nuovo sfilarmi nel pensiero all’eco della voce del capitano Hopkins. Quando il mio spirito ritorna al segreto martirio della mia infanzia, mi meraviglio di vedere i romanzi, che inventavo allora su persone di quella risma, avvolgere come una nebbia fantastica dei fatti precisi e reali. Quando ripasso per quelle vie, non mi stupisco se, compiangendomi, mi riveggo andare innanzi, romanzesco e innocente ragazzo, che compone il suo mondo immaginario con simili prove dolorose e lembi di miseria umana.
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