A far quel mestiere non vi fu mai, credo, un matto e un ubbriacone simile. Compresi subito, dalle incursioni dei ragazzi che venivano continuamente a schiamazzare innanzi alla bottega, gridandogli d’aver venduto l’anima al diavolo, e di far vedere l’oro che gli aveva estorto, ch’egli era molto noto nel vicinato e che correva sul conto suo quella leggenda. «Tu non sei povero, sai, Carlo. È inutile fingerlo. Facci veder l’oro. Facci vedere un po’ dell’oro che t’ha dato il diavolo. Su, è nella fodera del materasso, Carlo. Scucila, daccene un po’». Questo, e le molte offerte di coltelli per fare quell’operazione, lo esasperavano a un grado tale, che tutta la giornata fu una successione di rincorse da parte sua, e di fughe da parte dei ragazzi. Nella rabbia che lo assaliva, a volte mi prendeva per uno degli offensori e si precipitava su di me ghignando come se volesse farmi a brani; poi, a un tratto riconoscendomi, proprio a tempo, si rintanava nella bottega, e si buttava sul letto, come giudicavo dal tono della voce, a cantare freneticamente, nella sua solita cadenza, la «Morte di Nelson»; con un «: oh!» ad ogni verso, e innumerevoli «gorù» disseminati da per tutto. Come se per me questo non fosse abbastanza grave, i ragazzi, notando la mia pazienza e la mia perseveranza nello star seduto di fuori, semivestito, e attribuendomi qualche relazione col padrone della bottega, mi tiraron dei sassi e mi ingiuriarono tutto il giorno.
Egli tentò molte volte d’indurmi a fare un baratto: una volta uscì fuori con una lenza, poi con un violino, poi con un tricorno, e poi con un flauto.
| |
Carlo Carlo Nelson
|