Ma in questa difficoltà, come in tutte le altre del mio viaggio, ero sostenuto dall’immagine di mia madre nella sua giovinezza prima che io venissi al mondo. Essa mi teneva sempre compagnia. Era fra i luppoli, dove io mi misi a dormire; era con me la mattina quando mi svegliai; e mi precedette per tutta la giornata. D’allora in poi, l’ho associata nel mio pensiero alla via assolata della città di Canterbury, la quale mi apparve, per dir così, assopita nella luce viva, con lo spettacolo dei suoi edifici antichi e dei suoi cancelli e della sua Cattedrale, solenne e grigia e aguzza di torri cinte da voli di cornacchie. Quando arrivai, finalmente, sulle nude e vaste dune di Dover, l’immagine di mia madre mi fece guardar speranzoso quella solitudine, e non mi abbandonò finché non raggiunsi lo scopo principale del mio viaggio e non misi effettivamente il piede nella città, il sesto giorno della mia fuga. Ma allora, strano a dirsi, quando già calcavo con le scarpe a brandelli, e tutto arso dal sole e polveroso e seminudo, il luogo per cui avevo tanto peregrinato, essa sembrò svanisse come un sogno, lasciandomi scoraggiato e abbattuto.
Di mia zia chiesi prima fra i pescatori, e ne ebbi varie risposte. Uno mi disse che abitava nel faro del sud, e che vi s’era strinata i baffi; un altro che era legata alla boa fuori del porto, e si poteva visitarla solo all’ora della bassa marea; un terzo che era chiusa nella prigione di Maidstone per ratto di bambini; un quarto che era stata veduta, durante il temporale di pochi giorni prima, correre dritta a Calais, a cavallo d’una granata.
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