– E così dicendo, entrò svelta in casa, come per scuotersi di dosso la responsabilità della mia comparsa, lasciandomi accanto al cancello a guardar sconsolato oltre le punte di ferro la finestra del salotto, dove una cortina di mussolina in parte abbassata, una gran ventola verde e tonda piantata sulla soglia, un tavolino e una poltrona, mi fecero pensare che mia zia potesse in quell’istante esser seduta lì dentro in terribile atteggiamento.
Le mie scarpe erano ridotte in condizione pietosa. Le suole se n’erano andate in tocchi, e il cuoio di sopra s’era rotto e screpolato così da perdere perfino la forma della calzatura. Il cappello (che m’era servito anche da berretto da notte) era così ammaccato e sformato, che nessuna vecchia casseruola senza manico, gettata su un letamaio, si sarebbe peritata di fargli concorrenza. La camicia e i calzoni, laceri e macchiati dal sudore, dalla rugiada, dall’erba e dal suolo della contea di Kent, sul quale avevo dormito, avrebbero, mentre stavo accanto al cancello, potuto spaventare gli uccelli del giardino di mia zia. La faccia, il collo e le mani, non avvezzi ad essere esposti all’aria e al sole, erano arsi e spellati. Dal capo alle piante ero bianco di calce e di polvere, come se uscissi da una fornace. In quella condizione, e nell’umiliazione che me ne veniva, aspettavo di presentarmi a far la mia impressione sulla mia formidabile zia.
Comprendendo, dopo un poco, dalla non turbata calma di quella finestra, che mia zia non c’era, levai gli occhi a quella di sopra, dove vidi un simpatico signore, dalla testa grigia, che chiuse un occhio in atto grottesco, scosse il capo parecchie volte, verso di me, si mise a ridere, e andò via.
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Kent
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